Da Carlo Levi ai freelance delle inchieste sociali, una cultura
La prematura scomparsa di Alessandro Leogrande, autore di reportage fondamentali sul Sud Italia e il Mediterraneo, ha prodotto numerosi attestati di stima, meritati e toccanti. Alessandro faceva parte di una lunga e straordinaria tradizione di inchiesta sociale, che continua a rimanere ai margini del mondo dei mass-media, ignorata dalla politica ed esclusa dall’Università. Lo scandalo della morte di un giovane nel pieno delle sue forze intellettuali non sembra produrre alcuna riflessione critica sull’esistente e viene metabolizzata senza generare domande scomode.
La tradizione che ho in mente ha molti padri nobili, ma inizia con un romanzo anomalo, autobiografico e saggistico, Cristo si è fermato ad Eboli (1945) di Carlo Levi. Con quel libro irrompe sulla scena un Sud Italia fino ad allora ignorato dalle grandi narrazioni moderniste liberali e marxiste, che stava fuori dalla storia (come scrisse Italo Calvino), un mondo religioso, magico e stregonesco. Il Cristo ispirò una generazione di meridionalisti. Spinto da Levi stesso e dopo una breve esperienza politica, lo scrittore lucano Rocco Scotellaro, morto a trent’anni nel 1953, lascia incompiuto il suo studio sui Contadini del Sud (1954-55), un esempio ante-litteram di storia orale, con brani in italiano e in dialetto. Come ha scritto lo stesso Leogrande nel 2017, il libro di Scotellaro ha una struttura narrativa stratificata e complessa. È soprattutto un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo intellettuale dell’epoca, una ribellione “fredda, senza fumi, alimentata da un lavoro cocciuto e paziente.”
Questa tradizione continua con un altro capolavoro, dedicato al capitolo successivo di quella storia: L’immigrazione meridionale a Torino (1964) di Goffredo Fofi. Il suo autore è, al pari di Scotellaro, un sociologo irregolare e impegnato, che descrive lo sfruttamento degli immigrati, il razzismo, ma ricorda anche, contro ogni tentazione romantica, che era meglio vivere nelle periferie di Torino piuttosto che morire di fame nelle campagne del meridione. Gli immigrati di Fofi sono persone capaci di scegliere e di ribellarsi, non vittime inermi in attesa di essere salvate dall’intellettuale, dal politico o dal sacerdote di turno.
Questi studi sono mossi dalla critica del presente (quel “non accetto” di Aldo Capitini), ma aperti alla complessità dei fenomeni, multidisciplinari e chiari. Leogrande era uno degli eredi più importanti di questa tradizione, ma non l’unico: penso alle indagini di Stefano Laffi sui giovani, ai reportage di Giuliano Battiston sull’Afghanistan e la jihad, e agli scritti di Luca Rastello sulla guerra nella ex Jugoslavia, sul mercato della droga, sui rifugiati e sulla TAV. Vanno ricordati anche gli studi sul cinema italiano di Emiliano Morreale e i romanzi politici di Vittorio Giacopini.
Queste opere non partono mai da preoccupazioni astratte, ma da questioni attuali. Vi è sempre un coinvolgimento diretto dell’autore, che va sul campo, incontra le persone di cui scrive. Sono ricerche attente ai dati quantitativi, ma vanno oltre i sondaggi. Sono libri profondamente critici del presente, ma non di facile denuncia. Da ultimo, sono libri che rifiutano quello che Leogrande ha definito il “superomismo dello scrivere”, il credere che la realtà possa essere abbracciata dallo sguardo totalizzante dell’Autore e che la scrittura possa essere una scusa per prendere scorciatoie, raccontare balle, “fare del cinema,” come direbbe Max Weber. Questa tradizione è stata vista con grade sospetto dalla Chiesa e dal Partito Comunista, e continua a rimanere ai margini della politica ufficiale. Un appuntamento importante è il Salone dell’Editoria Sociale, che si svolge ogni anno nel quartiere Testaccio di Roma, ad ottobre. Oggi come nel dopoguerra questi autori sono precari, collaboratori esterni di giornali, freelance.
Lo scandalo maggiore è che essi siano estranei al mondo accademico. Il dibattito sui mali dell’Università italiana si focalizza sui concorsi truccati, sui plagi (diffusissimi) e sul nepotismo. Eppure sospetto che vi sia un meccanismo più profondo che esclude tali studiosi a priori, quale che sia il sistema dei concorsi. Sono troppo liberi, concreti e non accettano la camicia stretta delle discipline accademiche. E così generazioni di studenti non possono beneficiare del loro magistero (va detto che vi sono alcune eccezioni nell’Università italiana, ma si contano sulle dite di una mano).
Un altro mondo è possibile, come dimostra Evicted (2017), un libro scritto da un sociologo con cattedra ad Harvard, Matthew Desmond. L’autore, spinto da una esperienza personale, ha raccontato cosa è successo ad otto famiglie di Milwaukee nel Wisconsin quando hanno perso la casa durante crisi finanziaria del 2008. I libri di Leogrande e dei suoi compagni di viaggio non hanno nulla da invidiare ad Evicted, che ha vinto il Pulitzer ed è adottato nei dipartimenti di sociologia americani. Sarebbe un miracolo se il sistema accademico e dei grandi media si accorgessero di scrittori come Leogrande quando sono in vita. Ma sappiamo che i miracoli avvengono solo al cinema.
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