Terrore e dittatura. È la paura dei russi l’unica arma di Putin, Repubblica, 18/04/2022
Il metodo dello zar è fondato sulla paura, che guida tutte le sue mosse di politica interna ed estera
«L’unica arma di Putin è la paura, e allora l’unica risposta possibile è dirgli che il mondo non lo teme». Le parole del dissidente sovietico Natan Sharansky, pronunciate al Teatro Parenti il 13 marzo durante l’evento per l’Ucraina organizzato da Repubblica, sono dirette e profondamente vere. Sharansky coglie l’essenza del Putinismo e allo stesso tempo ci fa tornare con la mente ai totalitarismi del Ventesimo secolo. Il suo ragionamento è simile a quello di Hannah Arendt ed è un pensiero che ritrovo anche nella voce del giovane attivista ucraino che ho incontrato a Leopoli, Yuri Yatsenko, a sua volta incarcerato dal regime russo.
Il metodo Putin è fondato sulla paura, che guida tutte le sue mosse di politica interna ed estera. Il dittatore russo cerca in patria di sottomettere la popolazione con leggi draconiane e allo stesso tempo elastiche, usate per colpire comportamenti che sono perfettamente leciti, come vendere copie di 1984. Il terrore è lo strumento che Putin utilizza per intimorire i civili in Ucraina, dove i massacri di donne, bambini e anziani dovrebbero servire a fermare ogni resistenza. Allo stesso modo Putin usa la minaccia nucleare per intimidire il resto del mondo che non si adegua ai suoi voleri. Nessuno si può sentire sicuro, nulla è legale.
I regimi totalitari sono appunto costruiti sulla paura, come ci ha spiegato Hannah Arendt. I dittatori del Ventesimo secolo liquidavano servitori fedeli e oppositori e, per evitare di essere le prossime vittime, il vicino di casa, il credente che si genuflette al tuo fianco, il compagno di scuola che ti potevano denunciare ed essere responsabili della tua fine. Repubblica ha raccontato come Ioann Burdin, il parroco del piccolo villaggio di Karabanovo nella Russia del nord, sia stato denunciato il 6 marzo da un fedele che ascoltava il suo sermone. Non esistono luoghi sicuri, neppure nella casa di Dio. Dunque, la strategia più saggia per chi vuole sopravvivere in questo mondo rovesciato è l’isolamento, il silenzio, la menzogna. Durante la mia permanenza in Russia negli anni Ottanta mi stupivo di come i russi raccontassero poco di sé. Notizie su matrimoni, successi professionali, vacanze non venivano condivise. Il dittatore vuole creare «l’essere umano completamente isolato» e «la cautela più elementare impone di evitare tutti i contatti intimi» (Arendt). Il timore del prossimo è il motore che permette al sistema di funzionare.
Hannah Arendt fu, al pari dei rifugiati di oggi, costretta a scappare senza documenti dalla Germania con il marito e la madre. Fece tappa prima a Parigi, dove si impiegò in un centro di assistenza ai profughi, e poi riparò nel 1941 a New York passando per Lisbona. In un’intervista del 1964 raccontò come sin da subito le fosse ben chiaro che i nazisti fossero i suoi nemici. «La cosa che mi stupì di più fu quello che fecero i miei amici». Ancora prima che il terrore nazista si dispiegasse in tutta la sua forza, persone con cui aveva condiviso esperienze, letture, pezzi di vita si rivelarono improvvisamente diverse, pronte ad accettare la propaganda nazista, a fare il vuoto intorno a lei. Sotto la maschera dell’accademico, del collega, dell’amico si celavano persone in grado di giustificare, di comprendere, di venire a patti col regime. La prima tappa dell’abolizione dell’umano è frantumare le amicizie.
Yuri Yatsenko, che incontro all’Università Cattolica di Leopoli conosce bene il metodo Putin. Oggi un professionista di 31 anni, Yuri è uno dei 13 attivisti di Piazza Majdan che lo stato russo è riuscito ad incarcerare. «Sono stato arrestato nel maggio del 2014. Ero andato in Russia per vendere telefoni cellulari, ma appena arrivato la polizia è venuta nel mio albergo e mi ha scortato in un centro di detenzione per immigrati illegali. Poi il mio caso è stato preso in carico dall’Fsb e sono stato trasferito in un carcere duro, con criminali di professione, alcuni molto pericolosi». Qual era l’accusa? «Ero considerato un nazista perché dai social media avevano visto che ero stato un attivista a Piazza Majdan». Durante la detenzione, Yuri continuava a rifiutarsi di “confessare” e di denunciare i compagni, e così è stato torturato per giorni. Porta ancora oggi i segni di quell’esperienza sul suo corpo. «Quando non sono stato più in grado di sopportare il dolore, mi sono tagliato le vene. Il pavimento era un lago di sangue, il braccio mi si è gonfiato a dismisura, ma sono riuscito a farmi dare il mio cellulare». Il telefono era un vecchio modello, senza i numeri in memoria, ma Yuri, confuso e delirante, si ricordava quello del suo miglior amico. «Gli ho telefonato e lui si è attivato per mobiliare l’opinione pubblica in mio favore. Dopo un anno, sono stato rilasciato». Il tema della paura ritorna prepotente nel racconto di Yuri, che parla in fretta, senza pause, come se temesse di omettere un dettaglio. «Ho capito che per sopravvivere alla tortura dovevo superare il mio panico. “Voi mi chiudete dentro una cella, mi fate male, ma io non vi temo, sarò libero dentro”’, mi dicevo». Yuri ha conosciuto il dolore, ma non si considera una vittima. «In ucraino, la parola shertva ha due significati, “vittima”, ad esempio di un crimine, e “sacrificio”, come l’offerta di un agnello a Dio. Io non sono una vittima impaurita che elemosina pietà, ma una persona che ha fatto un sacrificio, un investimento. La mia resistenza è uno scambio, ho dato qualcosa per ottenere un beneficio futuro per tutti».
Come ebbe a dire il rabbino ucraino Nachman, il mondo intero è un ponte stretto e non si deve temere di attraversarlo. La resistenza è, ieri come oggi, la lotta collettiva contro la paura di combattere per un mondo più umano, più giusto e più libero e la dittatura senza il terrore è solo un castello di sabbia.